Cav. Vincenzo De Leo

Vincenzo De Leo che era nato a Policoro il 25 Marzo 1823.

A soli 22 anni, nel 1846, si laureò a Napoli dottore in Medicina e Chirurgia.

Alto, di corporatura robusta, viso largo e quadrato con barba e baffi, Vincenzo De Leo era un giovane coraggioso, inquieto, la vita tranquilla non si addiceva alla sua indole, impegnato nel sociale e in politica, correva ovunque ci fosse da combattere e si imponeva con naturalezza come condottiero, un Che Guevara del ‘800, medico come lui.

Nel 1848,  fece del suo palazzo il centro della cospirazione contro il Re Ferdinando II di Borbone.

Quello fu l’anno delle rivoluzioni.

Il 12 gennaio insorse Palermo e provocò anche l’insurrezione costituzionale a Napoli.

La notizia di quanto era successo a Palermo e poi a Napoli giunse a Montalbano Jonico e venne accolta dalla parte liberale con grande entusiasmo.

Vincenzo De Leo bandì ogni prudenza, si mise al petto la coccarda bianca, rossa e verde, uscì da quel palazzo che mi stava di fronte, da solo, e si avviò verso piazza Rondinelli.

Non lo seguì nessuno in quel suo gesto spavaldo, per prudenza, per timore, ma lui non se ne curò.

Quando era convinto di qualcosa, si assumeva fino in fondo le conseguenze delle sue azioni.

Tutti gli altri costituzionalisti tenevano bene a mente la reazione borbonica del 1799, le persecuzioni, la confisca dei beni, le teste di due paesani, Fiorentino e Mastrangelo, affidate al boia in piazza del Mercato a Napoli, Francesco Lomonaco esule e poi morto suicida, Rachele Cassano scampata al capestro, don Cosimo Palazzi incarcerato e poi uscito di senno, e quella del 1820 con un altro Francesco Lomonaco   morto nelle carceri di Potenza.

Vincenzo De Leo se ne tornò a casa per l’ora di pranzo fiero di sé stesso,  nessuno gli aveva obiettato nulla, ma vi furono molte discussioni e in tanti difesero la sua decisione.

Si giunse al punto di convocare un’assemblea nel municipio per decidere se i montalbanesi dovessero o meno fregiarsi della coccarda tricolore, che era un chiaro segno di contrarietà all’assolutismo della monarchia.

La discussione fu vivace, ma senza eccessi e intemperanze e fu decisivo l’intervento di Carlo Troyli, supplente giudiziario, che lesse un articolo di un giornale secondo il quale il Re al teatro San Carlo a Napoli aveva espresso tutta la sua contrarietà all’uso delle coccarde tricolori.

Vincenzo De Leo ne uscì sconfitto, ma meditava la rivincita ed essa arrivò in breve  tempo.

Il Re Ferdinando II venne costretto a concedere, infatti, la Costituzione e, quando il 15 febbraio la notizia arrivò in paese, furono suonate le campane a festa, piazza Rondinelli si gremì di gente e tutti vollero fregiarsi della coccarda bianca, rossa e verde.

Un corteo si formò spontaneo con i preti che celebrarono l’avvenimento in chiesa, le autorità municipali si unirono agli altri cittadini, in tanti già presenti in piazza, e Vincenzo De Leo tenne un pubblico comizio inneggiando alla libertà e alla costituzione.

Ma i deputati liberali non erano del tutto soddisfatti e il 15 maggio di quell’anno chiesero al Re di modificare la Costituzione e nella notte tra il 14 e il 15 sorsero a Napoli  le prime barricate.

Iniziarono gli scontri, il Re fece arrestare alcuni deputati, le truppe regie tentarono un primo assalto, ma vennero respinte.

Le barricate però nulla poterono contro il fuoco dell’artiglieria borbonica e due compagnie di cacciatori svizzeri.

La repressione causò circa 500 morti. Ferdinando II sciolse il Parlamento e la guardia nazionale, nominò un nuovo governo e proclamò lo stato d’assedio.  

Vincenzo De Leo seguì gli avvenimenti con trepidazione e, con altri giovani di Foggia, Lecce, Bari, del Molise, diede vita al Memorandum che rappresentò una sfida ai Borboni.

La protesta però fu vana ed egli partì alla testa di altri giovani insorti alla volta delle Calabrie.

Inviò una lettera con una staffetta al generale Ribotti, firmata anche da Nicola Roggers, che era il suo alter ego nel vicino paese di Pisticci, con la quale chiedeva istruzioni sul da farsi.

Le spie borboniche la intercettarono e venne utilizzata per farli catturare.

La reazione, come molti temevano, fu anche questa volta intransigente.

Vincenzo De Leo rivelò tutta la sua generosità e fece liberare il Roggers, suo complice, dichiarando che la sua firma in calce alla lettera l’aveva falsificata lui.

Egli, invece, finì in galera e la sua famiglia venne perseguitata. Anche i suoi fratelli vennero arrestati e i suoi anziani genitori messi sotto pressione, tant’è che in poco tempo il padre morì.

La vecchia madre con grande fatica si recò a trovare i figli posti in diversi carceri; aveva sei fratelli Vincenzo De Leo.

Dopo quattro anni di carcere e sei mesi di dibattimento, la pubblica accusa chiese tre condanne a morte sul patibolo, una delle quali per lui, per Vincenzo De Leo, e 25 anni di carcere per gli altri imputati. I suoi fratelli vennero invece assolti e liberati.

La madre era lì quel giorno, in tribunale, in attesa della sentenza, ma non sentì la sua pronuncia e chiese lumi agli astanti, ma nessuno ebbe il coraggio di dirle la verità.

E mentre i condannati uscivano dal palazzo di giustizia, lei si avventò sui gendarmi chiedendo se il figlio fosse stato condannato a morte e uno di essi con cinismo le rispose:

– No, no non gli taglieranno la testa. E’ stato condannato a morte con il laccio, per impiccagione.

La sentenza venne poi per fortuna rivista e la pena per Vincenzo De Leo trasformata in 19 anni di carcere duro, per cui venne mandato a Procida.

C’è una testimonianza che fa onore alla sua figura di medico: un prete, Bentivenga di San Chirico Raparo, ritenuto in odore di santità anche dal Re Ferdinando II,  fu curato da Vincenzo De Leo e gli fu talmente grato che intercedette presso la corte reale perché il carcere duro per lui fosse commutato in relegazione.

De Leo si trovava dunque relegato a Ventotene, quando la setta murattiana si prodigò per far salire sul trono di Napoli Luciano Murat, figlio di Carolina Bonaparte e nipote di Napoleone.

Si stavano raccogliendo le adesioni e De Leo portò la notizia agli ergastolani, dai quali ebbe la totale adesione alla sua idea di non volerne sapere di pretendenti al trono, ma di essere dell’avviso che a formare l’Italia fosse una dinastia italiana.

Nel frattempo Carlo Pisacane, suo amico, stava organizzando una  spedizione antiborbonica.

De Leo si trovava sull’isola di Ponza per prestare aiuto medico agli infermi lì relegati.

Ai seguaci e allo stesso Pisacane disse parole franche e generose, affermò che lui  non credeva che sarebbero stati accolti come liberatori dalla popolazione.

Secondo alcune versioni egli divenne amico di Carlo Pisacane e, avendo previsto il fallimento della spedizione di quest’ultimo a Sapri, dopo averglielo promesso, si sarebbe rifiutato di seguire l’eroe in quella impresa impossibile.

Accanto a De Leo, spicca in tale triste vicenda un altro personaggio, il regio parroco di Ponza don Giuseppe Vitiello,  il quale,  insieme ad altri, corse con una barca a remi a Gaeta per avvisare i borbonici dell’imminente sbarco di Pisacane e i suoi uomini; pare che ad informare il parroco fosse stato proprio Vincenzo De Leo.

Carlo Pisacane, appena sbarcato, venne massacrato con i suoi trecento uomini e la loro sorte ispirò a Luigi Mercantini  la poesia La spigolatrice di Sapri.

Morì invece nelle carceri di Potenza Pasquale De Michele che aveva partecipato al moti rivoluzionari del 1848.

A seguito dell’amnistia, Vincenzo De Leo, ritornato a Montalbano Jonico, aspettò il 18 agosto del 1860 per sostenere l’insurrezione lucana.

Nel frattempo continuò comunque la sua attività politica, sostenuto come sempre dai suoi fratelli.

Una lettera di un suo fratello seminarista, Ferdinando, venne intercettata dalla polizia borbonica.

Conteneva l’auspicio che cambiasse il sistema politico e incitava i fratelli a non demordere.

Casa De Leo venne perquisita e la madre di Vincenzo De Leo, Maria Corino, venne insultata in modo volgare e uno degli agenti giunse al punto da rimproverarle di aver messo al mondo non sette figli, ma “sette peccati capitali”.

Cinque dei sette fratelli, Giuseppe, Maurizio, Francesco, Ferdinando e Giovanni, vennero arrestati e poi dopo alcuni mesi scarcerati su interessamento del vescovo di Tricarico.     

Vincenzo De Leo era stato tenuto dai fratelli opportunamente da parte e non era neanche citato nella corrispondenza.

Egli, già nel mese di luglio del 1860, comprese che era giunto il momento della svolta e, senza indugi, in agosto, seguì le colonne insurrezionali come medico, sul Volturno, a Capua, a Gaeta.

Dopo l’unità d’Italia nei suoi confronti non vi fu alcuna gratitudine, nessun riconoscimento, né civile e né militare, ed egli isolato con i suoi uomini ritornò ancora una volta a Montalbano Jonico.

Si dedicò ai suoi studi di medico. Gli venne offerto dall’Italia unita, come compenso per la sua attività politica contro i Borboni, un posto in un ospedale con 50 lire al mese, ma lo rifiutò con sdegno.

Morì il 2 agosto del 1889, a 66 anni.

I suoi funerali furono imponenti: preceduto dalla banda musicale del comune di Pisticci, il feretro venne seguito da tutto il popolo, dai rappresentanti istituzionali, dalle associazioni, e furono pronunciati tre discorsi.

Per il patriota Vincenzo De Leo pervennero ai suoi fratelli anche molti telegrammi da ogni parte d’Italia.

Il portone di ingresso alla sua casa, mai ristrutturato, è ancora lì consumato dal tempo; a destra, entrando, vi è un quadro della madonna di Anglona, nell’ampio salone con le sue volte decorate, dove venne esposto il feretro, si erano svolti gli incontri del circolo costituzionale, uno dei primi della provincia di Matera, proprio su iniziativa di Vincenzo De Leo che ne fu il presidente.

L’aveva costituito dopo gli avvenimenti dei primi mesi del 1848.

Esso vincolò i suoi aderenti al segreto sulle discussioni e sulle decisioni che venivano assunte e su chi lo violava i due “terribili”, Gennaro Cassano e Pasquale De Michele, eseguivano le condanne decise nelle adunanze.

Coloro che volevano diventare soci, dovevano essere introdotti da un altro socio e la sera dell’adunanza (gli incontri segreti si svolgevano solo di sera, di domenica o nei giorni festivi), venivano introdotti in una camera oscura davanti a quel salone. Dovevano poi bussare e dall’interno il De Leo, in qualità di presidente, con voce ferma e altisonante, chiedeva:

– Chi è che a noi viene?

L’adepto rispondeva:

– Sono un fratello.

 E il De Leo:

– Che cosa desiderate?

L’adepto:

– Voglio la luce e il battesimo nell’acqua di Pio IX.

Quindi veniva aperta la porta d’ingresso e l’adepto entrava nella sala ancora al buio. Appena dopo essa veniva illuminata e l’adepto vedeva che era piena di soci, con il presidente in mezzo, un tavolo davanti a lui, dove vi erano un crocefisso e due pugnali incrociati.

L’adepto veniva invitato a giurare, con la mano sul crocefisso, che avrebbe difeso sempre e con ogni mezzo la libertà e la costituzione, e che non avrebbe rivelato a nessuno i segreti  del circolo, pena la morte.

Contemporaneamente i due “terribili” prendevano i pugnali dal tavolo e glieli tenevano appoggiati sul collo dai due lati di esso.

E non mancarono episodi cruenti, anche se si cercò sempre di convivere pacificamente.

Al sarto Luigi Capolongo, a metà del mese di ottobre del 1848, reo di aver rivelato ad un altro sarto, Vincenzo Ricciardi, il contenuto di alcuni verbali che erano stati redatti durante alcuni incontri segreti, nel corso di un’adunanza segreta gli venne sferrato dal “terribile” Gennaro Cassano un colpo di pugnale che venne deviato da uno dei fratelli di Vincenzo De Leo, Filippo, e che gli causò solo una ferita al volto. Ma si narra che per lo spavento il Capolongo morì di dissenteria e paura dopo una settimana.

Durante gli incontri, rigorosamente segreti, si parlava delle cose politiche del regno, si prendevano decisioni e si tentava di influenzare il corso degli eventi della vita pubblica in sede locale.

Vincenzo De Leo, medico e dall’eloquio forbito, si imponeva anche con il suo fisico robusto, il suo volto severo incorniciato da barba e baffi “risorgimentali”.

Era stato un combattente mai domo, avrebbe potuto godersi gli agi che gli derivavano dalle proprietà e dalla sua professione di medico e condurre una vita tranquilla, ma aveva un animo guerriero e non si era mai risparmiato nel dare il suo contributo alla storia.