Gli Itinerari

PIANTINA DEL PARCO

ITINERARIO TURISTICO STORICO-CULTURALE

Inizio del percorso da Porta Pandosia o Arco di San Pietro, il primo ingresso dalle mura difensive esterne dette rinascimentali, per quanto di più antiche origini, salendo per casa Lomonaco dove vissero gli illustri personaggi di quella famiglia e che fu sede di incontri tra tutti coloro che cospiravano contro i borboni. Questo quartiere, a sud di corso Carlo Alberto è un tipico quartiere di età moderna, presso il quale vissero illustri personaggi dell’illuminismo e del Risorgimento montalbanese.A destra vi è l’ingresso al belvedere delle Mura Rinascimentali e appena dopo la

Cappella di San Pietro

La cappella presenta un soffitto decorato a motivi floreali e vele. La statua di S. Pietro, in cartapesta, poggia su una base a forma di nuvola. Nel cosiddetto belvedere, alle spalle della chiesetta un tempo vi era il cimitero, ben prima dell’editto di Saint Clou.

Salendo per via Lomonaco si noteranno in alcuni casi delle conchiglie sui portali d’ingresso delle dimore più ricche: questo era simbolo di rinascita nei centri abitati posti non distanti dal mare.

Francesco Lomonaco, nato a Montalbano Jonico il 22 novembre nel 1772, soprannominato il Plutarco Italiano, ebbe come insegnante il padre e il sacerdote Nicola Maria Troyli.

Era talmente dedito agli studi che il padre gli voleva impedire di stare tutto il giorno con la testa sui libri. Lui per leggere si andava a nascondere o in qualche grotta fuori dal centro abitato oppure la notte continuava a leggere sotto il letto, facendosi luce con i moccoli di candela.

Sbalordì tutti per la sua precoce capacità di tradurre testi dal latino e dal greco.

A 18 anni si trasferì a Napoli dove si laureò in giurisprudenza prima  e medicina dopo, partecipò attivamente al tentativo rivoluzionario della Repubblica Partenopea del 1799 e scampò al capestro borbonico per puro caso,il suo nome da Lomonaco venne scritto Lamanica.

Si narra che fosse talmente onesto da voler far rilevare l’errore e quindi rischiare il capestro. 

Riuscì ad imbarcarsi con altri esuli andando  prima in Francia, a Marsiglia, poi in Svizzera e grazie all’amicizia con Vincenzo Monti a Milano.

Qui fu medico e amico di Ugo Foscolo e del fratello e amico e “maestro” di un giovanissimo Alessandro Manzoni o almeno l’autore dei Promessi Sposi lo considerò tale. Alessandro Manzoni ne ebbe tanta considerazione da dedicargli un sonetto..

A Francesco Lomonaco
per la vita di dante

Come il divo Alighier l’ingrata Flora
     Errar fea, per civil rabbia sanguigna,
     Pel suol, cui liberal natura infiora,
     Ove spesso il buon nasce e rado alligna,
Esule egregio, narri; e Tu pur ora
     Duro esempio ne dai, Tu, cui maligna
     Sorte sospinse, e tiene incerto ancora
     In questa di gentili alme madrigna.
Tal premj, Italia, i tuoi migliori, e poi
     Che pro se piangi, e ’l cener freddo adori,
     E al nome voto onor divini fai?
Sì da’ barbari oppressa opprimi i tuoi,
     E ognor tuoi danni e tue colpe deplori,
     Pentita sempre, e non cangiata mai.

Il monaco francescano padre Gabriele Ronzano, deceduto nel 2007, noto per la serietà dei suoi studi, nel suo libro “Fermo e Lucia – I promessi sposi”, edizioni il Salice, e più di recente Michele G. Scaccuto nel suo libro “Eresie su Francesco Lomonaco- Un mito del Risorgimento-Amico di Ugo Foscolo e Alessandro Manzoni”, editore Firenze Atheneum, si sono spinti ad ipotizzare una origine lucana dei Promessi Sposi e che l’ispiratore del romanzo più noto della storia della letteratura italiana, sia stato proprio Francesco Lomonaco.
A sostegno della loro tesi suggestiva avanzano una serie di indizi. La vicenda di Renzo e Lucia si sarebbe svolta non sulle rive del lago di Como, bensì su quelle del lago di Monticchio, in provincia di Potenza, e il manoscritto da cui è tratto il racconto dei promessi sposi l’avrebbe fornito Francesco Lomonaco al giovane Alessandro Manzoni.
Morì suicida a Pavia a soli 38 anni nel 1810, dopo che l’ultima sua pubblicazione. Discorsi filosofici e letterari, per il suo contenuto poco accondiscendente nei confronti del regime Napoleonico venne fatta oggetto di censura e di critiche tutt’altro che benevoli.
Nel 1913 un suo busto marmoreo fu collocato sul Pincio a Roma, tra i 300 italiani che si erano distinti con le loro opere e le loro azioni per raggiungere il traguardo dell’unità nazionale.
Scrisse, tra l’altro, Rapporto al cittadino Carnot, Analisi della sensibilità, Vite degli eccellenti italiani, Vite dei famosi capitani d’Italia.
Nella stessa casa visse anche il pronipote omonimo, il Commentatore Francesco Lomonaco che nacque il 20 Settembre 1833 in Montalbano Jonico e vi morì il 5 settembre 1887. Fu sindaco di Montalbano Jonico dal 1861 al 1880, consigliere e deputato provinciale di Potenza sino al 1879; il collegio elettorale di Matera lo elesse dal 1865 per quattro legislature deputato del parlamento italiano. Fondò l’asilo d’infanzia Casa Manin e a Potenza fu per molti anni responsabile dell’Istituto delle suore Gerolomine e di un’associazione alpinistica. Fu segretario della camera dei deputati e componente di varie commissioni parlamentari. Incontrò a Milano Alessandro Manzoni per parlare dell’omonimo antenato, poco tempo prima che l’autore dei Promessi Sposi morisse. La cronaca di quell’incontro apparve su uno dei primi numeri  del Corriere della Sera. Quella dei Lomonaco fu una famiglia di patrioti, di antimassoni e antiborbonici. I loro discendenti si sono poi trasferiti a Napoli e a Roma.

Salendo per via Lomomaco si giunge davanti al portone De Leo, sotto la cui volta d’ingresso sono ancora visibili dei simboli massonici: una mano e un martello.

Nel palazzo vi nacque il marchese di Polignano, Pasquale La Greca, che nella reazione borbonica del 1799 patì dure persecuzioni e la confisca dei beni.

Nel 1848, il cav. Vincenzo De Leo fece del suo Palazzo il centro della cospirazione contro Ferdinando II di Borbone.

In quella casa egli nacque il 25 Marzo 1823. Nel 1845 si laureò a Napoli dottore in Medicina e Chirurgia. Visse in Montalbano e morì il 2 Agosto 1889.

Prese parte attiva ai moti politici montalbanesi e di Basilicata, venne arrestato e imprigionato, relegato a Ponza dai Borbone. Divenne amico di Carlo Pisacane e avendo subdorato il fallimento della spedizione di quest’ultimo a Sapri, si rifiutò di seguire l’eroe in quella impresa impossibile. Accanto a De Leo, spicca nella  triste vicenda un altro personaggio, il Regio Parroco di Ponza Don  Giuseppe Vitiello, fratello di Ignazio, il quale – assieme ad altri compagni – corse con una barca a remi a Gaeta per avvisare i Borboni e pare che ad informare il parroco fosse stato proprio il monlalbanese De Leo Alcuni storici attribuiscono al suo ripensamento, alla sua diserzione e alla sua rivelazione la sconfitta di Pisacane che ispirò a Luigi Mercantini  la nota poesia La spigolatrice di Sapri.Ma egli nel 1868 pubblicò a Napoli un opuscolo”Un episodio dello sbarco di Carlo Pisacane in Ponza”che è una sorta di autobiografia con la quale smentisce tali illazioni.

La spigolatrice di Sapri

Eran trecento: eran giovani e forti,
e sono morti!

Me ne andavo  al mattino a spigolare
quando ho visto una barca in mezzo al mare:
era una barca che andava a vapore,
e alzava una bandiera tricolore.
All’isola di Ponza si è fermata,
è stata un poco, e poi s’è ritornata;
s’è ritornata ed è venuta a terra;
sceser con l’armi, e a noi non fecer guerra.

Eran trecento …
Sceser con l’armi, e a noi non fecer guerra,
ma s’inchinaron per baciar la terra:
ad uno ad uno li guardai nel viso:
tutti aveano una lagrima ed un sorriso.
Li disser ladri usciti dalle tane,
ma non portaron via nemmeno un pane;
e li sentii mandare un solo grido:
-Siam venuti a morir pel nostro lido!-

Eran trecento …
Con gli occhi azzurri e coi capelli d’oro
un giovin camminava innanzi a loro.
Mi feci ardita, e, presol per la mano,
gli chiesi: -Dove vai, bel capitano? –
Guardommi, e mi rispose: – O mia sorella,
Vado a morir per la mia Patria bella. –
Io mi sentii tremare tutto il core,
né potei dirgli: – V’aiuti il Signore! –

Eran trecento …
Quel giorno mi scordai di spigolare,
e dietro a loro mi misi ad andare:
due volte si scontrar con li gendarmi,
e l’una e l’altra li spogliar dell’armi.
Ma quando fûr della Certosa ai muri,
s’udirono a suonar trombe e tamburi;
e tra ‘l fumo e gli spari e le scintille
piombaron loro addosso più di mille.

Eran trecento …
Eran trecento, e non voller fuggire;
parean tremila e vollero morire;
ma vollero morir col ferro in mano,
e avanti a loro correa sangue il piano.
Finché pugnar vid’io, per lor pregai;
ma un tratto venni men, né più guardai:
io non vedeva più fra mezzo a loro
quegli occhi azzurri e quei capelli d’oro!… 


Nel 1860 Vincenzo De Leo fu commissario civile ed istituì giunte insurrezionali in vari comuni della Basilicata.

Il percorso  continua verso la Chiesa Madre Santa Maria dell’Episcopio, passando da via Lomonaco a via G.Pepe, si può ammirare  palazzo Santagata dove davanti al magazzino, vicino al portone d’ingresso, per motivi politici la sera del 12 novembre del 1854 Giambattista Santagata erudito e ricco, venne ucciso da una fucilata in mezzo a due guardie del corpo. Aveva solo 38 anni. Il motivo vero fu comunque l’invidia per la sua ricchezza, la sua prestanza fisica e la sua continua ascesa nella società locale.

La Chiesa Madre

Ha tre grandi navate con volte decorate da pitture del XVII-XVIII secolo e i dossali di diversi altari e i capitelli sono decorati a stucco.
All’interno della chiesa troviamo il magnifico Cappellone del Patrono S. Maurizio.
Il busto ligneo del Patrono, anch’ esso del 1630, collocato nella nicchia centrale, contiene chiuso nel petto il cranio osseo del Santo. Di notevole pregio sono l’antica statua lignea della Madonnacon bambino datata XIV sec., una statua di S. Nicola di Myra del XVI sec. e i preziosi teli dipinti a olio: la Madonna col Bambino che offre la Croce a S. Giovannino, di Mattia Preti, figura rappresentativa della scuola di Caravaggio,è soprannominato infatti il Caravaggio del sud, la Sacra Cena e  La fuga in Egitto attribuito ad Oronzo Tiso, artista molto apprezzato del Meridione d’Italia del XVIII sec. All’interno della chiesa segnaliamo la fonte battesimale, un monolito in marmo  di pietra del 1500, e un maestoso organo a canne di chiara fattura settecentescaornato di stucchi, dipinto e indorato di ottima fattura ora posto nella navata centrale.

Usciti dalla Chiesa Madre e svoltando a destra, via Arnaldo da Brescia, vi è un  palazzo appartenuto ai Troyli, famiglia benestante venuta dalla Slesia intorno al 1500 e della quale vi sono ancora oggi i discendenti. Di fronte invece vi dimoravano i preti, che allora erano numerosi e spesso vi  svernavano i vescovi di Tricarico. La Chiesa, come la vediamo oggi, è stata realizzata, dopo che un terremoto la semidistrusse nella prima metà del 1700 ed è stata soggetta ad ampliamenti e restauri nel corso dei secoli. Dal retro della Chiesa Madre, dopo aver ammirato il vecchio ingresso in quella che era la piazza del mercato del paese ( frutta, verdura, ortaggi ), si accede alle mura normanne.

Le Mura Normanne

Montalbano conta due cinte murarie: una è quella che cinge la “Terravecchia”, la parte medievale dell’abitato e la seconda quella che cinge il borgo, anch’esso di antiche origini detto un tempo “Terra Montis Albani.

Una prima visione delle mura normanne evidenzia la presenza di tre torri, di cui due quadre e una circolare. Elementi distintivi sono poi le merlature, sotto le quali altre feritoie verticali si inseriscono tra una torre e l’altra. Oggi buona parte delle mura sono andate distrutte, restano però significative testimonianze.

Dal retro della Chiesa Madre percorrendo vicoli e stradine si giunge in piazza Cirillo, tipica espressione di piazza medievale montalbanese con le  case soprane e sottane e gli archi a tutto sesto dei sottoscala. Qui, nei pressi dei calanchi, la vista si apre magnificamente per godere di un panorama mozzafiato. Si vede la catena montuosa del Pollino e dell’appennino lucano, il paese fantasma di Craco e lo sperone della Petrolla.

Al margine della Riserva dei calanchi e al confine tra i territori di Montalbano, Craco e Pisticci, si erge infatti a strapiombo sulla campagna circostante uno sperone di roccia, denominato “Tempa Petrolla”.

La strada per raggiungere la località è un po’ impervia e da una certo punto in poi sterrata. Il luogo però è particolarmente suggestivo. Il posto è stata abitato sin dal neolitico ed ha ospitato un villaggio fortificato fino al Medioevo. Si vedono infatti ancora i resti di un insediamento abitativo. La Petrolla è sullo spartiacque di due valli, del Cavone e dell’Agri: un punto strategico, ripreso dalla moderna cartografia a far parte della rete geodetica italiana e dalla cui sommità si gode di un panorama a 360°. Nella biblioteca comunale è conservato un atto firmato da un notaio che si chiamava Ubaldo da Petrolla.

Nella vallata di fronte a sinistra vi è  il santuario di Anglona.
Lì sorgeva l’antica città di Pandosia che fu importante nella Magna Grecia.

Era al centro di traffici commerciali ed in una posizione predominante e strategica, dominava infatti le valli del fiume Agri e del Sinni, a quel tempo navigabili, la piana della Conca d’Oro e tutta la campagna sottostante. Dalla cima del colle si può inoltre ammirare il panorama circostante che va dal mar Jonio fino al golfo di Taranto e tutti i paesi della costa e quelli limitrofi fino alle vette del Parco nazionale del Pollino.

Nell’inverno del 331 – 330 a.C. il re epirota Alessandro il Molosso, venne sconfitto ed ucciso dai Lucani, sulle rive del fiume Achelandro(probabilmente l’attuale fiume Agri). Quest’ultimo è un altro evento controverso, però Plinio il Vecchio attribuisce l’evento a Pandosia lucana.

Più o meno nella stessa vallata si svolse la famosa  battaglia di Eraclea nell’anno 280 a.C. tra le truppe della repubblica romana e quelle della coalizione greca che univa Epiro, Taranto, Metaponto ed Eraclea sotto il comando del re Pirro d’Epiro che arrivò con gli elefanti.

Teatro dello scontro fu il territorio dominato dalla città di Eraclea, Come narra Plutarco, Pirro si accampò nella pianura tra Anglona ed Eraclea, di fronte al fiume Sinni.

Nei calanchi vi sono delle grotte, tra esse la più nota è quella detta “u cas’ddon’. La leggenda vuole che essa penetrasse fin dentro il centro e venisse utilizzata dai briganti per entrare ed uscire dal paese nelle ore notturne e che vi fosse seppellito anche un loro tesoro. Tra i contadini si diffuse anche la leggenda che sotto un albero di cetrangolo, in un giardino nel pressi del fiume Agri, è seppellito un tesoro dei briganti. Ma per poterlo prendere senza che la maledizione e la morte colga colui ch si dovesse cimentare nell’impresa, è necessario che mangi un intera spalla di lardo di un maiale e uccida un bambino appena nato. Il cetrangolo è ancora lì e nessuno ha osato avventurarsi in  tale impresa.  

L’origine del centro abitato di Montalbano Jonico è ignota, sebbene ad oggi le risultanze archeologiche risalgono fino all’età ellenistica.

 La leggenda vuole che i lucani alleati di Pirro, dopo la sconfitta subita da quest’ultimo dai romani, temendo la loro vendetta si ritirarono su questo colle e davanti al castello per ingraziarsi la loro simpatia disegnarono un’immagine di Giano Bifronte, dio romano protettore delle porte e dei passaggi (perché guarda dentro e fuori, il passato ed il futuro, il vecchio ed il nuovo) in tempo tra pace e guerra. Due busti neoclassici del dio romano si trovano all’ingresso del palazzo del Principe in corso Carlo Alberto.

Di recente è stata istituita dalla Regione Basilicata la Riserva dei Calanchi.

Si tratta di un geosito di valenza scientifica mondiale, con una successione-stratidicazione geologica e paleontologica unica al mondo, tanto da essere candidata per il 2016 al Chiodo d’Oro ( Golden Spike ).

I calanchi di Montalbano Jonico,  sono un laboratorio di studio internazionale per importanti ricerche. Durante la Settimana del Pianeta Terra, ricercatori stranieri di fama internazionale, esperti in evoluzione stratigrafica e paleoclimatica del Pleistocene, sono stati in visita a Montalbano Jonico. I calanchi, infatti, ci raccontano di un paleomare che, circa 780.000 anni fa, occupava buona parte dell’Italia meridionale. Un mare profondo, popolato da organismi come gasteropodi, bivalvi, echinodermi e crostacei (gli stessi molluschi oggi si ritrovano nei mari del nord europa a testimoniare che allora da noi il clima era sicuramente più freddo),  i cui resti fossili si rinvengono tutt’ora scendendo lungo gli antichi tratturi, “appiett’“, che dalla collina montalbanese si dirigono verso il fondovalle. La ricchezza fossilifera, nonché la possibilità di ricostruire dettagliatamente la storia paleoclimatica e paleoambientale del nostro pianeta, al passaggio fra il Pleistocene inferiore e il Pleistocene medio, hanno consentito la citata candidatura all’attribuzione del prestigioso (Golden Spike) Chiodo d’oro. Nei calanchi si è svolto lo scorso anno anche uno spettacolo, organizzato con altri comuni limitrofi dall’amministrazione comunale, “Luci e Suoni dei calanchi” con oltre tremila spettatori.

I calanchi venivano percorsi tutti i giorni dai contadini per recarsi nella valle dell’agri, dove vi erano i giardini e la presenza dell’acqua del fiume Agri era una ricchezza per il paese.

E’ visibile nei pressi dei calanchi e vicino all’accesso d’appiette ‘u mulin’ il luogo dove sorgeva il Castello, nei pressi della Tempa del Diavolo. Qui sorse in epoca medievale un edificio di potere con strutture di attacco e difesa, mentre nel XIII sec., con Federico II fu istituita una domus solaciorum, una struttura castellare per l’accoglimento della corte imperiale ed al cui interno c’erano giardini, fontane, botteghe, cappelle. In seguito il castello, fu occupato dalla famiglia campana dei Sanseverino.

 Agli inizi del 1500 il maniero era di proprietà del feudatario Girolamo Sanseverino quando decise di andare nella sua amata Napoli a prendere moglie.

Tornato dopo il matrimonio e una breve vacanza a Sorrento, con la moglie Sancia Dentice, una giovane 19enne bella e sensuale, venne da quest’ultima tradita quasi subito con il segretario del castello Ottavio Fiorino, figlioccio del Barone.

Tre nipoti di Girolamo, Ascanio, Sigismondo e Giacomo, offesi nell’onore,  fecero ammazzare il Fiorino, da tre zingare, ma qualche tempo dopo furono a loro volta uccisi con il veleno proprio da Sancia e dalla sorella di Ottavio Clelia Fiorino che per un tragico errore avvelenò il suo fidanzato, il medico Silvestro Asprella( la casa degli Asprella è in corso Carlo Alberto, poi divenne dei Mastrangelo attualmente degli Jacobellis).

Morirono tra atroci dolori e la madre dei tre fratelli Sanseverino Ippolita de Monti, fece scolpire tre statue dei suoi figli e la sua. Le opere  si possono ancora ammirare nella chiesa sconsacrata di San Severino e Sossio a Napoli. 

Nell’1800 qui il cavalier Maurizio Rocco sulle rovine del castello realizzò un opificio nel quale trovarono occupazione molte persone, mentre alcuni materiali dell’ormai distrutto castello servirono per realizzare un altro palazzo Palazzo Federici dei baroni d’Abriola. Le tristi vicende del Castello sono state narrate nel romanzo La Castellana. Questo è il suo incipit:

ANNO DOMINI 1510

Era una calda serata di fine aprile dell’anno 1510. Il sole era appena scomparso dietro le cime silenziose dei monti lucani. I contadini di Montalbano avevano quasi tutti fatto ritorno in paese, tranne qualcuno che, a dorso d’asino o a piedi, ancora si attardava a raggiungere la propria umile dimora.
Dalle case, bagliori di luce a tratti rischiaravano la strada: erano i focolari accesi per cuocere la minestra che veniva consumata tutti insieme e raccolti intorno all’unico piatto.
Le donne erano impegnate a sbrigarsi alla svelta per potersi subito dopo sedere a gruppi davanti alle porte, come ancora s’usa fare d’estate, e chiacchierare del più e del meno, raccontare ai più piccini fatti lontani, o dire in coro il rosario, non tralasciando mai di fare un bilancio, arricchito delle ultime notizie, sugli sviluppi degli amori in paese, sugli imminenti matrimoni, sui fidanzamenti contrastati, sui litigi tra le famiglie per le misere doti degli sposi.
Gli uomini preferivano andare a bere un bicchiere di vino alla locanda di via Alighieri; oppure, se la giornata era stata particolarmente faticosa, restavano seduti dinanzi alla porta di casa a schiacciare un pisolino con la sedia rivoltata e le spalle al muro con la testa a mo’ d’orologio a pendolo, indecisa se andare avanti o indietro. I ragazzi si trastullavano con giochi antichi o con lo zimbello di turno. La primavera di quell’anno sembrava dovesse finire senza eccessive emozioni, ma quella sera, ad animare la calma di strade e vicoli, si era sparsa la notizia che il Sanseverino era stato chiamato a Napoli dal padre, il quale, per porre fine alla vita da scapolo del figlio, già trentaseienne, gli avrebbe presentato una bellissima ragazza di ottima famiglia affinché convolassero a giuste nozze.

Tornando verso l’arco dell’orologio e passando davanti alla Cappella di San Leonardo, si arriva a casa Cassano. Qui visse Rachele Cassano, una ragazza di 19 anni che prese parte attiva ai moti per l’instaurazione della repubblica partenopea e la cacciata dei borboni. Rachele diffondeva Il Monitore Napoletano di Eleonora de Pimental Fonseca anche nei paesi vicini. Con la restaurazione a differenza di altri illustri montalbanesi, riuscì a scampare alla vendetta borbonica solo grazie alla sua avvenenza e alle intercessioni del cognato Carlo Troyli, borbonico convinto, e non ultimo al fatto che il capitano Pensabene venuto in paese per arrestarla se ne innamorò perdutamente. La vicenda della sua vita è stata narrata nel romando storico “ La ragazza sui calanchi”. Di seguito l’incipit del romanzo:

Rachele stava rannicchiata nel suo letto quella calda mattina del 5 giugno del 1791.
Dormiva avvinghiata al cuscino e un lindo lenzuolo di lino le copriva solo in parte il corpo. Le gambe e le braccia scoperte erano bianche del candore della sua pelle che l’inverno aveva protetto dal sole.
I lunghi capelli neri scarmigliati erano stati raccolti durante il giorno dietro la nuca in un nastro di stoffa color rosa, che Rachele aveva delicatamente posato sul comodino prima di mettersi a letto.
Il suo viso pulito, come acqua di pura sorgente, si offriva innocente alle carezze della serenità che alitava in quell’atmosfera di pace.
Un raggio di sole si intrufolava dal battente della finestra socchiusa e quella lama di luce divideva la stanza esattamente a metà, illuminando un cagnolino di stoffa, accovacciato con molto cura su di una sedia in vimini.
I due grandi occhi del finto quadrupede, disegnati con il carbone, erano rivolti verso il letto di Rachele, come a voler vigilare sul suo sonno.
Quel pupazzo glielo aveva regalato la sera prima la sua amica Cassandrina ed a lungo lei lo aveva contemplato, prima di addormentarsi con il cuore colmo di tristezza, per un’intima confidenza che l’amica del cuore le aveva fatto, mentre discorrevano amorevolmente, tra singhiozzi e lacrime improvvise, scoppiate come un temporale inatteso in una splendida giornata di sole.
Il letto di Rachele era nell’angolo più in penombra della stanza ed il suo volto luminoso rifletteva l’innocenza dei suoi dodici anni.
In quel silenzio ed in quel tepore estivo l’espressione del suo viso era un riverbero di eternità che violentava il lento scorrere del tempo.
Al capezzale del suo letto vi era un crocefisso in legno ed una immagine della Madonna.
Un grande armadio in noce, uno scrittoio che aveva conosciuto chissà quante generazioni, ed una libreria con due ante di vetro completavano l’arredo della sua camera.
Non ancora donna e non più bambina, il suo corpo già accennava alla femminilità che di lì a qualche tempo si sarebbe manifestata nel fascino magico della sua esistenza.
Il silenzio, che allora si effondeva in ogni dove nella quiete dei giorni che scorrevano lenti, era di tanto in tanto interrotto dal vociare delle donne, dallo scalpitio di muli e cavalli o dai traini che caracollando percorrevano la strada che passava proprio sotto il suo balcone. L’eco di quei rumori si perdeva nell’aria senza frangere quella quiete antica.

Proseguendo si arriva all’arco dell’orologio.

L’Arco dell’Orologio

Era la principale via d’accesso al centro storico del paese.Un tempo era l’antica porta di Montalbano detta porta del Castello, porta di origini normanne, che cingeva il nucleo abitato del castello All’interno dell’arco si scorge ancora l’incavo da cui scendeva la saracinesca che chiudeva e apriva l’entrata. Successivamente fu costruito su questa porta l’antico pubblico orologio che fino a pochi decenni fa regolava lo scandire della vita quotidiana del paese .Oggi è stato rimesso in funzione.    
Proseguendo e svoltando a sinistra vi è  il Circolo Unione e Palazzo Rondinelli.

Palazzo Rondinelli

Edificato nel 1683 dalla famiglia De Roberti, passato nel sec. XIX al magistrato Filippo Rondinelli e nel 1861 al comune. Attualmente vi è ospitato il Fondo Antico della Biblioteca comunale, con 8993 unità bibliografiche, compresi opuscoli e manoscritti in un arco di tempo che va dal 1501 al 1900. Il Fondo antico é composto da vari fondi: Rondinelli, Santagata, Cappuccini, Rizzi, Villone e da 131 cinquecentine. All’interno del palazzo possibile ammirare anche una piccola pinacoteca con ritratti di uomini illustri di Montalbano e numerosi reperti storici e archeologici.

VISITA AL FONDO ANTICO E ALLE TAVOLE DI HERACLEIA

Svoltando dopo a sinistra si arriva nei pressi delle mura medievali dove durante il periodo estivo si può assistere a spettacoli e rappresentazioni teatrali.

Svoltando poi a destra appena dopo vi è il giardino di Casa Fiorentino.

Niccolò Fiorentino nato a Pomarico il 3 aprile del 1955, la madre donna Giulia Sisto era infatti di quel paese materano. la famiglia si trasferì subito a Montalbano Jonico in via Roma.
Fu matematico e giureconsulto autore di numerose pubblicazioni. Era cugino di Francesco Lomonaco la cui madre si chiamava infatti Margherita Fiorentino.
A soli 14 anni vinse un concorso per l’insegnamento mentendo sulla sua reale età. Nel 1775 ottenne la cattedra di matematica e filosofia razionale a Bari.
NeI 1789 fu nominato governatore di Montauro e Gasperina in Calabria, e nel 1798 di Torre del Greco, Resina e Portici. Le sue opere sono: “Lettere di Gaetano Fiorentino ad un suo amico sopra il saggio di D.Ermenegildo”; “Principi di giurisprudenza criminale di Niccolò Fiorentino”; “Dissertazione sopra alcuni punti di giurisprudenza criminale”; “Istituzioni di pratica criminale”; “Istituzioni criminali teoriche e pratiche ad uso di ogni tribunale e corte della città e del Regno di Napoli”; “Riflessioni sul Regno di Napoli”; “Saggio sulle qualità infinitesime e sulle forze vive e morte”; “Rime”;  “Ragionamento su la tranquillità della Repubblica del cittadino Niccola Fiorentino soldato della Guardia Nazionale, 11 aprile 1799, anno settimo repubblicano”; “AI giovani cittadini studiosi”. Nel 1799 si convertì al movimento Repubblicano e pagò con la vita questa sua scelta. Scrisse anche “Inno a S. Gennaro, 14 ventoso, anno settimo della libertà”;
Una tesi di laurea su Niccolò Fiorentino è stata pubblicata dalla casa editrice Altrimedia di Matera e può essere letta in chiaro su internet.
In essa viene anche ricostruito la parte più drammatica del processo che lo vide condannato al capestro.

Pietro Colletta, storico e discepolo del Fiorentino, suo compagno di cella c ha ricordato i giorni del processo.

“Niccolò Fiorentino accusato di amore della Repubblica, accusa, a sua volta – egli scrive- il Re ed i suoi ministri di alto tradimento: il Giudice Guidobaldi – tenendo a giudizio Niccolò Fiorentino, uomo dotto in matematiche, in giurisprudenza, in altre scienze, caldo ma cauto seguace di libertà, schivo d’uffici pubblici e solamente inteso, per discorsi e virtuosi esempi, ad istruire il popolo, gli disse: Breve discorso tra noi, dì che facesti nella Repubblica. Nulla, rispose,  mi governai con le leggi o con la necessità, legge suprema. E poiché il primo replicava che i tribunali , non gli accusati, dovessero giudicare della colpa o della innocenza delle azioni, e mescolava nel discorso alle malconce teoriche legali, ora le ingiurie, ora le proteste di amicizia antica, e sempre la giustizia, la fede, la bontà del monarca, il prigioniero caldo d’animo e oratore spedito, perduta pazienza, gli disse: il re, non già noi, mosse guerra ai francesci; ed il re ed il suo Mack furono cagioni delle disfatte, il re fuggì lasciando  il regno povero e scompigliato; per lui venne conquistatore il nemico, ed impose ai popoli vinti le sue volontà. Noi gli obbedimmo, come i padri nostri obbedirono alla volontà del Carlo Borbone ; chè l’obbedienza dei vinti  è legittima perché necessaria. Ed ora voi, ministro di quel Re, parlate a noi di leggi, di giustizia, di fede?Quali leggi? Quelle emanate dopo le azioni! Quale giustizia? Il processo segreto, la nessuna difesa, le sentenze arbitrarie! E qual fede? La mancata nelle capitolazioni dei castelli! Vergognate di profanare  i nomi sacri della civiltà al servizio più infame della tirannide. Dire che i principi vogliono sangue, e che voi di sangue li saziate, non vi date il fastidio dei processi e delle condanne, ma sulle liste i nomi dei proscritti e uccideteli: vendetta più celere e più conforme alla dignità della tirannide. Ed in fine, poiché amicizia mi protestate, io vi esorto ad abbandona re il presente ufficio del carnefice, non di giudice, ed a riflettere se c’è giustizia universale, che pure circola sulla terra, non punirà in vita i delitti vostri, voi, nome aborrito, svergognerete i figli, e sarà per i secoli avvenire la memoria vostra maledetta.
L’impeto del discorso conseguì che finisse e, finito, fu l’oratore dato ai birri, che stringendo spietatamente le funi e i ceppi, tante piaghe lasciarono sul corpo, quanti erano i nodi, ed tornato in carcere, narrando a noi quei fatti, soggiunse che ripeterebbe  fra poco quei racconti ai compagni morti”.Il 5 dicembre del 1799 venne condannato a morte.  Sali sul patibolo il 12 dicembre 1799 e affidò il collo al boia.

Proseguendo si arriva a

Palazzo Federici dei baroni d’Abriola o Palazzo del Cavaliere

In questo maestoso palazzo fu ospitato, nel 1902, l’onorevole Giuseppe Zanardelli, in occasione del suo viaggio in Basilicata, come testimonia la lapide murata al lato del portone.

La leggenda vuole che di notte, nell’ampio cortile interno del palazzo nelle notti  ventose, fredde  e piovose compaia  la terribile figura di un cavaliere senza testa, e lo scalpitio degli zoccoli del suo destriero pare abbia terrorizzato per generazioni i sonni degli abitanti. Raccontavano che di notte, nel cortile,  di averlo visto  aggirarsi tetro su di un cavallo bianco. Lo scalpitio probabilmente era dovuto all’acqua che cadeva nella cisterna sottostante il palazzo, rimbombando nel silenzio notturno, fino a sembrare il rumore degli zoccoli d’un cavallo. E’ visibile la botola, così come stati stati recuperati i ganci di ferro dove venivano assicurati i cavalli.

L’anziano presidente del consiglio Giuseppe Zanardelli dopo aver tenuto un discorso alla folla dal balcone a sinistra guardando l’ingresso del palazzo, pranzò nell’ampio salone, poi su un carro trainato da bufali si recò nella vicina Tursi. Non esisteva ancora il ponte di Frascarossa per cui per guadare il fiume Agri bisognava attraversarlo. Il carro era condotto dal montalbanese di origini pisticcesi Giuseppe Quinto che per far meglio comprendere all’anziano uomo politico la pericolosità quotidiana di quell’attraversamento, guadò il fiume  le  punto più alto, tanto che fu necessario far aggrappare Zanardelli sulle sue possenti spalle per evitare che si bagnasse.  Dopo tre mesi il presidente del consiglio fece arrivare il finanziamento per la costruzione del ponte di Frascarossa.Durante il percorso Zanardelli chiese a Quinto se quegli animali, i bufali, fossero cattivi. Il trainiere fraintese,  nel dialetto locale cattivo venivano appellati i vedovi, per cui egli pensò che il riferimento fosse al manto scuro degli animali, come se fossero a lutto e tra l’ilarità generale rispose: “no presidè , è proprij assì u ck’lor’”-

A destra dell’ingresso vi è la

Cappella di San Gennaro

Fu eretta nel 1846 dai Baroni Federici, custodisce da molti anni la bara di Gesù morto. La facciata della cappella divisa da 4 lesene, sormontate da una cornice leggermente aggettante, l’architrave decorata da triglifi e il tutto sorregge un timpano più sporgente, al centro del quale c’ una nicchia con il mezzobusto del santo. Il portale d’ingresso ha una cornice e un essenziale rosone con decorazioni.

Nelle vicinanze vi è la Porta dell’Osannale ribattezzata nel 1860 Porta Metaponto e di fronte il dismesso cine teatro nuovo con oltre 600 posti a sede. Nella piazza dell’Osannale sono stati rinvenuti reperti archeologici che attestano la presenza di abitanti in età ellenistica.

Proseguendo si transita davanti all’ingresso di Palazzo Bonelli con di fronte la cappella dedicata a S.M. d’Andria e S.M. del buon consiglio nel 1500, e poi il palazzotto Benincasa e il vecchio palazzo Troyli dove nacqua Nicola Maria Troyli, sacerdore e maestro di Francesco Lomonaco.

La Cappella di S. Maria D’Andria o del Buon Consiglio

La piccola cappella del XVI sec. si presenta con una facciata piatta interrotta da una finestra quadrilobata. All’interno della chiesetta possibile vedere il portale in pietra con un architrave cesellato con elementi floreali classicheggianti, il soffitto a botte e l’altare, in marmo policromo, si sviluppa su tre piani d’appoggio. Sul tabernacolo, con la porticina in bronzo, c’è un’insolita statuetta di Gesù Bambino che regge la croce e presso l’altare posta una teca in legno in cui è custodita una bellissima statuetta in maiolica della Madonna Addolorata vestita in pizzo nero

Si arriva davanti quindi

al portone di ingresso del Palazzo Zito Elia che apparteneva ad un ramo ora estinto della famiglia Ferrara; ha nel Cortile di oltre 1000 metri quadri, vi è una cisterna, nella cui bocca si legge inciso su pietra l’anno 1557.

Svoltando a destra si arriva davanti alla porta di ingresso del giudice Giambattista Bonelli che lavorò per oltre 50 anni al Tribunale di Milano, andò in pensione come presidente del GIP, fece parte della commissione sui riforma dei codici da cui si dimise perché non ne condivideva l’impostazione di fondo. I vecchi codici sosteneva difendevano i diritti della comunità, i nuovi esasperano la protezione de diritti dell’individuo a discapito di quelli comunitari, tra questi quello sulla sicurezza in primo,luogo. E fu profetico. Con lui iniziò mani pulite con l’assegnazione del primo processo a Mario Chiesa.

Quasi di fronte vi è la

Cappella del Purgatorio

Dedicata alle origini a San Salvatore dal 1745 fu consacrata all’Immacolata, stesso anno in cui passò probabilmente alla Confraternita del Carmine. La cappella ricca di pitture del barese Nicola Colonna, ha una bella statua del Redentore, lavori finissimi leccesi in cartapesta e le statue dei Santi Medici Cosimo e Damiano.La Cappella del Purgatorio dedicata a San Salvatore, fu consacrata all’Immacolata nel 1745, ottenendo poi il Regio assenso da Ferdinando IV di Borbone nel 1778.

Poco più avanti vi è

Palazzo Mansi

Appartenne sino alla fine del 1700 alla famiglia Mansi e poi alla famiglia Cerulli dal 1770. Fu ospitato Carlo III di Borbone nel 1735, come ricorda la lapide in marmo murata sulla facciata di Corso Carlo Alberto.

Il giovane Re aveva solo 19 anni e i nobili del posto diedero in suo onore una rappresentazione teatrale che gli piacque talmente da richiedere una replica la sera successiva.

Carlo III rimase talmente impressionato favorevolmente dal paese da conferirgli il titolo d Città e prima di ripartire donò un anello d’oro per la statua di San Maurizio e una catena di ferro che aveva un importante valore giuridico: chiunque, anche un delinquente incallito se riusciva ad aggrapparsi ad essa fino a quando riusciva a tenerla tra le mani non poteva essere  arrestato dai gendarmi.

Proseguendo per il vicolo dopo una cinquantina di metri si arriva davanti al portone di ingresso della famiglia Stoia.

Davanti vi è una  targa che ricorda la storia della proprietà di quel palazzo, dove visse la famiglia Romeo.

Maurizio Romeo giovanissimo andò a Santantimo, un sobborgo di Napoli, tra le sue allieve vi era Consiglia Taglialatela di 13 anni. Se ne innamorò e dopo due anni la sposò.Dai coniugi nacquero dieci figli. Il primogenito fu l’ing. Nicola Romeo, fondatore dell’omonima casa automobilistica. Il piccolo Nicola era costretto a percorrere alcuni chilometri a piedi per recarsi a scuola. Egli per potersi sostenere negli studi impartiva lezioni private ai figli dei benestanti. Una volta laureato andò all’estero, poi a Milano e alla già esistente Anonima Lombarda Fabbrica Automobili aggiunse il suo cognome fondando la famosa casa automobilistica.l’ING. Nicola Romeo per i suoi meriti fu anche nominato Senatore. 

Attraversando alcune stradine si arriva in piazza del Plebiscito e quindi davanti alla cappella della Madonna della Pietà e a Palazzo Brancaccio. 

Cappella della Madonna della Pietà

Incerta l’origine. Piuttosto piccola, sulla parete frontale vi è l’altare in muratura sul quale è posto un dipinto che raffigura la Pietà.Sotto la cappella è tutt’intorno venivano seppelliti i  morti, basta infatti scavare perché emergano ossa e crani. Nell’angolo a destra guardando la porta di ingresso, è visibile la scritta di un nome incisa sulla parete, sembra che lì sia stato seppellito un bambino.

Palazzo Brancaccio

Dal 1817 al 1821 vi dimorò Ottaviano Rasole, maestro della carboneria montalbanese. Nel 1860 con l’unità d’Italia, fu sede del Municipio e il 21 ottobre dello stesso anno vi si svolse il plebiscito politico che sancì la volontà dei montalbanesi ad accettare l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno Sabaudo.

Tornando indietro vi è il portone di ingresso al palazzo che dalla parte opposta ha un loggiato che guarda verso il mare e che è appartenuto ai Bajona, gestori del castello di Policoro per conto dei principi Serra Gerace, che vi dimoravano durante il periodo estivo, ai Troyli e ad altre facoltose famiglie montalbanesi. Sul portone c’è la conchiglia di cui abbiamo parlato all’inizio del percorso.

Da una stradina si arriva alla seconda cinta muraria o mura rinascimentali, quindi si attraversano i portici Pitagora per portarsi all’ ìnizio di Corso Carlo Alberto, nel 1555 vi fu l’invasione dei Turchi che misero a soqquadro il paese. Nel 1568  vennero ricostruite parte delle mura di cinta e con esse la Porta della Terra, su cui venne posta una lapida che ricordava quel triste avvenimento con la scritta “Memoria praeteriti timoreque futuri”.

Appena dopo a destra vi è la

Cappella di San Nicola

Costruita nel 1709, ha sulla facciata una nicchia dove posto il mezzo busto di pietra raffigurante San Nicola con la mano destra protesa.

A sinistra salendo vi è il

Palazzo del Principe 

Appartenne alla ricca famiglia dei Quinto, passò poi ai Principi di Serra Gerace ai Berlingieri nel 1892 e poi ai vari cittadini montalbanesi. In questo palazzo dal 1848 al 1860 si cospirò contro Ferdinando II, il sovrano borbonico.

Pochi metri dopo sulla destra vi è la casa che dette i natali e dove visse con la famiglia Felice Mastrangelo.

Nato in Montalbano Jonico il 6 Aprile 1773, si laureò il 2 Giugno 1792 in Napoli dottore in Medicina. Parteggiò per la repubblica partenopea, e nominato generale repubblicano difese Altamura finchè potè dalle orde del Ruffo. Per tradimento fù arrestato ed incarcerato ed afforcato nella piazza mercato di Napoli il 14 Ottobre 1799. A lui e al sacerdote Nicola Palomba e alla loro intransigenza molti storici attribuiscono la disfatta di Altamura ad opera degli uomini sanfedisti del cardinale Fabrizio Ruffo. Fuggito a Napoli , nel tentativo di imbarcarsi come il Lomonaco per andare in Francia a Marsiglia, travestito da pescivendolo venne scoperto e quindi arrestato. Prima che il boia infilasse la sua testa nel cappio alla folla urlò: “ho vissuto libero e felice ed ho fatto di tutto per rendervi liberi e felici”. Aveva solo 25 anni.Restaurata quindi la Monarchia la famiglia che viveva in questa casa, il padre era anche lui un medico, non poteva neanche ricevere la condoglianze e solo di notte affranta dal dolore riceveva qualche conoscente.

Più avanti a sinistra si può visitare il museo della civiltà contadina, vedere i video e ascoltare i canti popolari di Vincenzo Rosano.

Salendo si passa davanti alla

Cappella della Madonna del Carmine

Fu eretta nel XVIII sec,venne detta Purgatorio vecchio, in quanto sede originaria della Confraternita del Pio Monte dei Morti dal 1694 al 1780. Fu propriet della famiglia Troyli nei primi anni del 900, attualmente dei Federici. Sull’altare, in una nicchia, si trova la statua della Madonna del Carmine con Bambino.

E poi alla casa dell’ abate Placido Troyli.

Divenne monaco cistercense nel monastero di Santa Maria del Sagittario all’età di diciassette anni. Scrisse numerosi libri tra cui una voluminosa Istoria Generale del Regno di Napoli, opera apprezzata e citata da molti autori successivi. Dopo essere diventato abate del suo ordine, quello cistercense, per motivi politici fu privato della dignità di abate e costretto a chiudersi nel convento di Santa Maria di Realvalle presso Scafati dove morì nell’aprile 1757.

L’Istoria Generale del Reame di Napoli si trova in chiaro su Google. Pare che durante la II guerra mondiale gli americani abbiano fatto razzia di volumi e documenti dell’Archivio Storico delle province napoletane e poi con l’arrivo della rete molti di essi li abbiano scannerizzati e resi consultabili.

Salendo a sinistra vi è la società operaia di Mutuo Soccorso e sopra si può visitare biblioteca comunale e la mostra di arte moderna.

Il percorso terminare all’angolo dove c’è la nicchia di San Maurizio. Qui nel 1500 coloro che non pagavano un debito consistente potevano scontare la pena in due modi: o andando in carcere oppure posizionarsi all’angolo tra i gendarmi e radunata tutta la popolazione mostrare il culo a suo di tromba. Quasi tutti sceglievano di andare in carcere per la vergogna e per evitare la famiglia venisse poi soprannominata come quella dei mostraculo.