Comm. Francesco Lomonaco

Nacque il 20 Settembre 1833 in Montalbano Jonico e vi morì il 5 settembre 1887. Fu sindaco di Montalbano Jonico dal 1861 al 1880, consigliere e deputato provinciale di Potenza per vari anni sino al al 1879; il collegio elettorale di Matera lo elesse dal 1865 per quattro legislature deputato del parlamento italiano.

Suo padre Luigi morì a soli 28 anni nel 1842 e sua madre Domenica Quinto si risposò. prete mancato curò diverse pubblicazioni tra cui il primo statuto comunale di Montalbano Jonico, il regolamento dell’asilo d’infanzia Casa Manin da lui fondato, un opuscolo sull’ alpinismo lucano e un altro sull’Istituto delle suore Gerolomine, due organismi che aveva anche presieduto,  militò nel partito moderato e fu segretario della camera dei deputati e componente di varie commissioni.

A lui si deve l’aggiunta “Jonico” nel 1863 al nome del paese per distinguerlo dagli altri “Montalbano” e sottolineare la sua vicinanza al mare.

Fu un risultato della sua amministrazione anche l’aggregazione della frazione di Policoro al comune di Montalbano con decreto reale del 25 dicembre 1870, dopo una disputa durata decenni con il comune di Tursi.

Durante il mese di agosto del 1866 incontrò a Milano Alessandro Manzoni, poco tempo prima che l’autore de’I Promessi Sposi morisse; con lui parlò del pro-zio Francesco Lomonaco e la cronaca di quell’incontro venne pubblicata sul Corriere della Sera del 12-13 ottobre del 1876  n° 219, quasi dieci anni dopo.

L’anziano poeta e scrittore, senatore del Regno d’Italia, accolse il giovane Lomonaco con queste parole:

– Non avrei mai creduto che conosciuto un Francesco Lomonaco nella mia giovinezza, avessi poi dovuto avere suo nipote a compagno nel parlamento nazionale.

Manzoni aveva 17 anni quando dedicò al suo amico Francesco Lomonaco un sonetto, dopo che questi aveva pubblicato la vita di Dante, nel libro Vite degli eccellenti italiani.

Ed ecco come il Corriere della Sera ricordò quell’incontro.

“In una giornata del mese di agosto del 1866, un giovine alto, dai capelli e baffi neri, dal volto abbronzato e dall’aria distratta, si recava a Brusuglio, dimora estiva di Alessandro Manzoni. Annunziato il nome, fu introdotto immediatamente. Don Alessandro gli andò incontro, e, dopo averlo squadrato con una di quelle sue occhiate intelligenti, gli strinse la mano come a una vecchia conoscenza, e gli disse così:
– Francesco Lomonaco era così basso, e lei è così alto; ma c’è l’aria del volto e si chiama anche Francesco!

Don Alessandro, nel nome e nell’aria del volto di quel giovine, rammentava Francesco Lomonaco, al quale aveva dedicato un sonetto.

Manzoni aveva amato Lomonaco come maestro e amico. Dopo cinquantasei anni, gli parve che rivivesse nel giovane Francesco, deputato al parlamento italiano, lo spirito dell’avo, epperò gli fece festa, e volle minute notizie della famiglia, del pittoresco Montalbano, culla dell’antico e patriottico casato.

Volle sapere tante altre cose e molte ne disse egli sul vecchio amico. Parlò della sua gioventù, degli studi e delle scapataggini, dei primi passi tentati insieme nel cammino delle lettere in una età singolare, in una società singolare come quella di Milano al tempo della Cisalpina e di Eugenio, e sotto gli sguardi di un uomo singolarissimo, Napoleone, all’apogeo della gloria e della potenza.

Il povero Lomonaco – disse il Manzoni – era ardente, affettuoso, veramente meridionale, ma ebbe un ingegno sfortunato, e negli ultimi tempi fu infelice e si tolse la vita, egli che nei suoi discorsi filosofici e letterari, pubblicati a Pavia due anni prima, aveva combattuto il suicidio, come prova di animo debole. Ma il suicidio era la malattia dell’epoca, e quasi non passava giorno che non se ne contassero, soprattutto nell’esercito. Qualche tempo dopo del suicidio di Lomonaco a Pavia, si uccide a Milano il capitano Foscolo, fratello di Ugo, in ancora giovane età.

Lomonaco era un uomo di talento, come tutti gli emigrati napoletani del 1799. Quell’emigrazione concorse alla coltura in Lombardia. Non conoscevamo quasi il Vico, e furono gli emigrati napoletani che ce l’hanno fatto conoscere. Coco era un uomo di grande ingegno, ma era pigro, anzi pigrone: Lomonaco era studiosissimo, e i suoi libri lo dimostrano; pensava molto ed aveva un gran corredo di studi storici e classici, ed era per tutti noi un dottore.

Il Collegio Ghislieri di Pavia fu trasformato da Napoleone in una scuola politecnica-militare, e Lomonaco, in seguito a pubblico concorso, vi ottenne l’insegnamento della storia e della geografia, e vi lesse il primo giorno una bella prolusione circa l’importanza della storia e della geografia sulle cose della guerra. Lomonaco aveva concorso per titoli, come si dice oggi, e il Ministro Vaccaro mandò i libri di lui a Vincenzo Monti, perché li esaminasse. Il Monti li lesse, li lodò assai, nonostante la forma un po’ negletta: e Lomonaco ottenne la cattedra, e andò a Pavia, dove visse tre anni una vita di studi. Credeva, forse a torto, di avere dei nemici implacabili, era divenuto triste e quasi insocievole. Morì filosoficamente. Si levò dal letto all’ora solita: era la mattina del primo settembre 1810: scrisse una lunga lettera al fratello, si vestì degli abiti da festa, uscì di casa e andò al caffè del Barilotto, dove bevve un bicchiere di vino, e andò sul Navigliaccio, presso S. Lanfranco, luogo molto solitario, e si buttò nella corrente, in quel giorno rapidissima; un soldato cercò di salvare il suicida, ma lottò invano con le onde, e per poco non ne fu inghiottito anche lui. La triste fine del Lomonaco fu molto compianta. A Pavia ebbe solenni esequie, e noi, suoi amici, ne fummo addoloratissimi.

Immaginate l’impressione del giovane deputato di Matera che sentiva discorrere in  quel modo del fratello del suo bisnonno dal maggior poeta vivente d’Italia, che gli era stato amico e compagno di studi.

Il patriottismo, l’abnegazione e la generosità sono tradizionali in casa Lomonaco. Suo nonno morì nelle prigioni di Potenza nel 1822, per aver preso parte al moto insurrezionale del 1820 finito infelicemente ad Androdoco.”

Francesco Lomonaco sindaco e parlamentare morì  a 54 anni.

I suoi figli molti anni dopo, nel 1930, fecero cremare il suo corpo a Roma e le ceneri vennero collocate nel cimitero di Montalbano Jonico.

L’urna cineraria si trova in fondo, sul lato sinistro del cimitero vecchio.

Il loculo in cui sono conservate le sue ceneri è quasi nascosto, abbandonato da chissà quanti anni, senza un fiore, un cero, una lampadina, con la scritta sulla lapide in marmo quasi illeggibile.

Alla sua morte unanimemente il consiglio comunale commissionò un suo busto marmoreo, con il contributo anche di privati cittadini, da collocare in municipio.

Furono concordi anche i suoi avversari politici. Oggi quel busto si trova all’ingresso della sede municipale.